Gabriele Poli

Critica. La figura/luogo e lo spazio/tempo nell'opera di Gabriele Poli

di Cinzia Bollino Bossi

Che cos'è la figura? Gabriele Poli mi guarda, un po' perplesso, e cerca dentro di sé la risposta. È metà dicembre, più o meno, e siamo nel suo studio, davanti ai nuovi quadri. Un anno e mezzo di lavoro, "che forse avrei potuto riassumere in sei mesi", mi dice. Già. Se non ci fosse tutto il resto attorno. (Ma vivresti, Gabriele, senza quel resto? E ci sarebbero le tue opere, senza i conflitti, le lacerazioni, le interrogazioni di chi, come te, non tace e non chiude gli occhi?) I nomi sono ragione delle cose, forse è proprio vero.
E a chiamarsi così, "poli", non può che essere attratto dagli opposti, da ciò che sta oltre, agli antipodi; e Gabriele, poi, come l'angelo. L'arcangelo, anzi.
A ricordare una tensione verso una sacralità che distilla nella pietà e nell'attenzione ogni frammento di giornata. Ma torniamo alla figura. "È l'esito - mi ha risposto - di un processo materiale e mentale, di un concorso di forze. Ora è per me un centro di attenzione, ma non è soggetto privilegiato o gerarchicamente dominante". Un esito: qualcosa di conclusivo, una tappa obbligata, azzardo.
Anni fa la figura era stata rimossa, come se fosse lingua inadatta a parlare l'orrore, incapace di dire la consapevolezza dei mali del mondo. L'afasia figurativa non è stata però definitiva. Poli ha semplicemente procrastinato un appuntamento, rinviato una riflessione, come il marinaio non rinuncia all'approdo, anche quando lo rimanda, anche quando lo allontana. Ha amato le anatomie muscolose e mascoline di Michelangelo, la loro carne e la loro presenza, poi ha subito il fascino dell'inconscio e intravisto la possibilità di altre anatomie: dello spirito, del pensiero. Ha radiografato i corpi, li ha scarnificati, ridotti a segno. Poli ha aperto il cubo prospettico, ha lanciato schegge di pareti, confuso sopra e sotto, strada e cielo, e nell'astrazione del paesaggio ha immesso segni. Come se le periferie testoriane di sangue sudore e asfalto fossero abitate da sagome giacomettiane. Ma la riva, l'esito, era sempre lì, ammiccante, seducente. Un luogo. Se la figura era un luogo, come calarla dentro l'altro luogo, il paesaggio, lo spazio della tela? come farlo senza scorciatoie facili, senza soluzioni da scatole cinesi? Poli ha collocato la figura nel suo ambiente, confrontandosi con i modelli del passato: le veneri - quelle di Giorgione e di Tiziano, in primo luogo - e poi tutta la pittura sacra e profana del Quattrocento. Lo spazio si è necessariamente rinchiuso, è imploso, si è fatto bozzolo intorno alla figura. La soluzione, fatta passare per la porta, era poi scappata dalla finestra. Il problema diventava a quel punto l'equilibrio tra figura e spazio. Chiedo allora a Gabriele di darmi la sua definizione di spazio.
Il tempo di una sigaretta, risponde, ironizzando sulla mia intolleranza al fumo. Già, ma intanto, tra il serio e il faceto, ha buttato lì l'equivalenza tra spazio e tempo. Lo spazio è il diaframma tra l'azione pittorica e ciò la determina, mi dice, mentre fuma nell'angolo opposto dello studio. E parla della sua attenzione ai margini, ai limiti, ai confini. Parla di viaggi nella piastrella, retaggio della pratica incisoria. Lì, nel regno del minuscolo, del respiro lillipuziano, del controllo, Poli ha imparato a conoscere la spazialità della materia. Sulla tela, ha portato un colore vibrante e materico, piegato alla logica della moltiplicazione dei punti di vista, della mancanza di un centro, di un omphalos. La novità è che quel centro ora c'è, ora si intuisce. Non è più (non è ancora) un centro prospettico, nonostante il cubo appaia in alcune opere richiuso e parzialmente ricomposto. Il centro, in molti dei nuovi lavori, è una figura che si muove, plana, danza. Le sagome che si stagliano entro (o contro) i consueti tagli urbani hanno pose più articolate di un tempo, quando ridotte a segno puntellavano la scena con la brevità e la longilineità d'impalcature, quando erano consunte come gli asfalti, nere come le strade. Ora la figura torna in relazione con lo spazio. Se lo spazio - luogo che accoglie la figura - è aperto, anche la figura, in virtù del suo essere luogo, deve essere aperta. E il passo sottrae metri alla strada, la costruisce, la palesa. L'azione, che è qualcosa che si svolge nel tempo, da una connotazione quasi narrativa alla nuova pittura di Gabriele Poli e salda lo iato proprio lì dove s'era creato: nella dicotomia tra stasi e moto, tra aperto e chiuso. Grazie all'intuizione della figura in movimento, Poli, in questo ultimo anno e mezzo di lavoro, ha trovato una nuova ragione, una nuova giustificazione all'esplosione, alla deflagrazione dello spazio; è una somma di sguardi quella che c'è sulla tela: dell'artista, della figura che pare sovente atterrare (già, gli angeli...), di chi infine guarda.
Tutti questi sguardi insieme non fanno che smontare e rimontare il cubo, e insinuarci il ragionevole dubbio che Poli, nel suo districarsi tra polarità così estreme e fondanti della pittura, non sia a modo suo un classico. Ma forse questa è un'altra domanda. Da fare in studio, a sigarette spente.

Cinzia Bollino Bossi, 2005